sabato 17 settembre 2011

Non si può chiedere ad un politico di agire nella piena moralità delle cose se poi lo si giudica in base al suo successo.

Politica e morale

E’ uno dei problemi fondamentali della filosofia politica, il problema del rapporto fra politica e morale. La politica e la morale hanno in comune il dominio su cui si estendono, che è il dominio  dell’azione o della prassi umana. Si ritiene si distinguono tra loro in base al diverso principio o criterio di giustificazione e di valutazione delle rispettive azioni, con la conseguenza che ciò che è obbligatorio in morale non è detto che sia obbligatorio in politica, e ciò che è lecito in politica non è detto che sia lecito in morale; o che vi possono essere azioni morali che sono impolitiche (o apolitiche) e azioni politiche che sono immorali (o amorali). La scoperta della distinzione che viene attribuita, a torto o a ragione, a Machiavelli, onde il nome machiavellismo a ogni teoria della politica che sostiene e difende la separazione della politica dalla morale, viene di solito trattata come problema dell’autonomia della politica. Il problema procede di pari passo con la formazione dello stato moderno e con la sua graduale emancipazione della chiesa, che giunge nei casi estremi alla subordinazione della chiesa allo stato e di conseguenza alla supremazia assoluta della politica. In realtà ciò che si chiama autonomia della politica non è altro che il riconoscimento che il criterio in base al quale si considera buona o cattiva azione politica (e per azione politica s’intende un azione che abbia o per oggetto o per soggetto la polis) è diverso dal criterio in base al quale si considera buona o cattiva una azione morale. Mentre il criterio in base al quale si giudica un’azione come moralmente buona i cattiva è rispetto di una norma il cui comando è considerato come categorico, indipendentemente dal risultato dell’azione (“fa quel che devi e avvenga quel che può”), il criterio in base al quale si giudica un’azione come politicamente buona o cattiva è puramente e semplicemente il risultato (“fai quel che devi perché avvenga quel che vuoi”). I due criteri sono incommensurabili. Questa incommensurabilità viene espressa mediante l’affermazione che in politica vale la massima “il fine giustifica i mezzi”, massima che ha trovato in Machiavelli una delle sue più forti espressioni: “e nelle azioni di tutti li uomini, e massime dè principi, dove non è indizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato, e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati” (Principe, XVIII). Al contrario, in morale la massima machiavellica non vale, giacché un’azione per essere giudicata moralmente buona deve essere compiuta con nessun altro fine che quello di compiere il proprio dovere.
Una delle più convincenti interpretazioni di questa contrapposizione è la distinzione weberiana fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità: “ve una differenza incolmabile fra l’agire dell’etica della convinzione, la quale in termini religiosi suona – il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio-, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni”. L’universo della morale e quello della politica si muovo dentro l’ambito di due sistemi etici diversi anzi contrapposti. Più che di immoralità della politica o apoliticità della morale si dovrebbe più correttamente parlare di due universi etici che si muovono secondo principi diversi secondo le diverse situazioni in cui gli uomini si trovano ad agire. Di questi due universi etici sono rappresentanti due personaggi diversi che agiscono nel mondo su vie destinate quasi sempre a non incontrarsi: da un lato l’uomo di fede, il profeta, il pedagogo, il saggio che guarda alla città celeste, dall’altro l’uomo di stato, il condottiero di uomini, il creatore della città terrena. Ciò che conta per il primo è la purezza delle intenzioni e la coerenza dell’azione all’intenzione, per il secondo la certezza e la fecondità del risultato.  La cosiddetta immoralità della politica si risolve a ben guardare in una morale diversa da quella del dovere per il dovere: è la morale per cui si deve fare tutto quello che è in nostro potere per realizzare lo scopo che ci siamo preposti, perché sappiamo sin dall’inizio che saremo giudicati in base al successo. Vi corrispondo due concetti di virtù, quella classica, per cui “virtù” significa disposizione del bene morale (contrapposto all’utile), e quella machiavellica per cui la virtù è la capacità del principe forte e avveduto che, usando insieme della “golpe” e del “lione”, riesce nell’intento di mantenere e di rafforzare il proprio dominio.
(Teoria Generale della Politica, Norberto Bobbio, a cura di Michelangelo Bovero, III Politica e morale 116).

Non si può chiedere ad un politico di agire nella piena moralità delle cose se poi lo si giudica in base al suo successo. (Antonio Pace)

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