domenica 9 ottobre 2011

Steve Jobs. Discorso all'University of Stanford

Sono onorato di essere qui con voi oggi, nel giorno della vostra laurea presso una delle migliori università del mondo. Io non mi sono mai laureato. A dir la verità, questa è l’occasione in cui mi sono di più avvicinato ad un conferimento di titolo accademico. Oggi voglio raccontarvi tre episodi della mia vita. Tutto qui, nulla di speciale. Solo tre storie.

La prima storia parla di “unire i puntini”.

Ho abbandonato gli studi al Reed College dopo sei mesi, ma vi sono rimasto come imbucato per altri diciotto mesi, prima di lasciarlo definitivamente. Allora perchè ho smesso?
Tutto è cominciato prima che io nascessi. La mia madre biologica era laureanda ma ragazza-madre, decise perciò di darmi in adozione. Desiderava ardentemente che io fossi adottato da laureati, così tutto fu approntato affinché ciò avvenisse alla mia nascita da parte di un avvocato e di sua moglie. All’ultimo minuto, appena nato, questi ultimi decisero che avrebbero preferito una femminuccia. Così quelli che poi sarebbero diventati i miei “veri” genitori, che allora si trovavano in una lista d’attesa per l’adozione, furono chiamati nel bel mezzo della notte e venne chiesto loro: “Abbiamo un bimbo, un maschietto, ‘non previsto’; volete adottarlo?”. Risposero: “Certamente”. La mia madre biologica venne a sapere successivamente che mia mamma non aveva mai ottenuto la laurea e che mio padre non si era mai diplomato: per questo si rifiutò di firmare i documenti definitivi per l’adozione. Tornò sulla sua decisione solo qualche mese dopo, quando i miei genitori adottivi le promisero che un giorno sarei andato all’università.
Infine, diciassette anni dopo ci andai. Ingenuamente scelsi un’università che era costosa quanto Stanford, così tutti i risparmi dei miei genitori sarebbero stati spesi per la mia istruzione accademica. Dopo sei mesi, non riuscivo a comprenderne il valore: non avevo idea di cosa avrei fatto nella mia vita e non avevo idea di come l’università mi avrebbe aiutato a scoprirlo. Inoltre, come ho detto, stavo spendendo i soldi che i miei genitori avevano risparmiato per tutta la vita, così decisi di abbandonare, avendo fiducia che tutto sarebbe andato bene lo stesso. OK, ero piuttosto terrorizzato all’epoca, ma guardandomi indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’istante in cui abbandonai potei smettere di assistere alle lezioni obbligatorie e cominciai a seguire quelle che mi sembravano interessanti.
Non era tutto così romantico al tempo. Non avevo una stanza nel dormitorio, perciò dormivo sul pavimento delle camere dei miei amici; portavo indietro i vuoti delle bottiglie di coca-cola per raccogliere quei cinque cent di deposito che mi avrebbero permesso di comprarmi da mangiare; ogni domenica camminavo per sette miglia attraverso la città per avere l’unico pasto decente nella settimana presso il tempio Hare Krishna. Ma mi piaceva. Gran parte delle cose che trovai sulla mia strada per caso o grazie all’intuizione in quel periodo si sono rivelate inestimabili più avanti. Lasciate che vi faccia un esempio:
il Reed College a quel tempo offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del paese. Nel campus ogni poster, ogni etichetta su ogni cassetto, erano scritti in splendida calligrafia. Siccome avevo abbandonato i miei studi ‘ufficiali’e pertanto non dovevo seguire le classi da piano studi, decisi di seguire un corso di calligrafia per imparare come riprodurre quanto di bello visto là attorno. Ho imparato dei caratteri serif e sans serif, a come variare la spaziatura tra differenti combinazioni di lettere, e che cosa rende la migliore tipografia così grande. Era bellissimo, antico e così artisticamente delicato che la scienza non avrebbe potuto ‘catturarlo’, e trovavo ciò affascinante.
Nulla di tutto questo sembrava avere speranza di applicazione pratica nella mia vita, ma dieci anni dopo, quando stavamo progettando il primo computer Machintosh, mi tornò utile. Progettammo così il Mac: era il primo computer dalla bella tipografia. Se non avessi abbandonato gli studi, il Mac non avrebbe avuto multipli caratteri e font spazialmente proporzionate. E se Windows non avesse copiato il Mac, nessun personal computer ora le avrebbe. Se non avessi abbandonato, se non fossi incappato in quel corso di calligrafia, i computer oggi non avrebbero quella splendida tipografia che ora possiedono. Certamente non era possibile all’epoca ‘unire i puntini’e avere un quadro di cosa sarebbe successo, ma tutto diventò molto chiaro guardandosi alle spalle dieci anni dopo.
Vi ripeto, non potete sperare di unire i puntini guardando avanti, potete farlo solo guardandovi alle spalle: dovete quindi avere fiducia che, nel futuro, i puntini che ora vi paiono senza senso possano in qualche modo unirsi nel futuro. Dovete credere in qualcosa: il vostro ombelico, il vostro karma, la vostra vita, il vostro destino, chiamatelo come volete... questo approccio non mi ha mai lasciato a terra, e ha fatto la differenza nella mia vita.

venerdì 23 settembre 2011

Incapaci di uccidere il padre

Di "guerra", di sano conflitto, qui, non c'è traccia. Incapaci di trascendere, almeno un poco e magari con ironia, la sfera angusta della sussistenza materiale, non stimolati a cambiare, la generazione dei settanta e dei primi anni ottanta si lascia vivere insediata nei bui e claustrofobici anfratti del sistema, resi meno spaventevoli da consolle, tv e computer che non necessitano di luce solare.
Ma la storia insegna che, nonostante gli ostacoli, ogni generazione ha non solo il diritto ma anche il dovere di trovare la propria strada; anzi, quello di doversi guadagnare il proprio spazio di crescita, e se ciò le viene precluso, di forzare il cambiamento, è un destino inevitabile.
Nell'accezione latina il termine giovane contiene in se anche il senso di mutamento e del rinnovamento. Ciò che è giovane non è statico, non è rigido, non è spento. L a gioventù ha il fuoco dentro: brucia o viene bruciata. Del resto, se i giovani avessero sempre accettato incondizionatamente il mondo dei genitori vivremmo ancora nelle grotte. E' soprattutto sugli errori e i successi temerari dei figli, nonostante, i calorosi avvertimenti ed i saggi consigli dei padri, che si è costruita l'avventurosa e mirabolante storia dell'umanità.
I trentenni di oggi, ancor più quelli italiani, sono poco giovani perché non in grado di essere utili adeguatamente alla collettività, dipendendo a lungo dai propri genitori. Sono po giovani perché purtroppo passivi e remissivi, mano capaci di diventare protagonisti del cambiamento e del rinnovamento sociale. Ma se i trentenni italiani non sono giovani che cosa sono? Più bambini rispetto ai coetanei del mondo sviluppato, perché meno risorsa per il loro paese. Più vecchi dei propri genitori perché più lenti, più cauti, meno reattivi  e propositivi. Eterni figli perché non in grado di uccidere metaforicamente il padre.

giovedì 22 settembre 2011

Bambini che fanno finta di essere tali

L'articolo 12 della Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia afferma che i bambini ed i ragazzi hanno il diritto di essere gli attori della propria vita e di partecipare alle decisioni che li riguardano, mettendo in discussione in modo profondo e radicale gli atteggiamenti che danno per scontato che i bambini e i ragazzi debbano essere visti ma non ascoltati. 
Articolo 12 che in molti Paesi del mondo non è, purtroppo, tenuto per niente in considerazione, visto il numero cospicuo di bambini, che adempiono “lavori”, o presunti tali, di ogni genere. Ovviamente la gamma è abbastanza ampia e va dal lavoro domestico ai lavori forzati, dallo sfruttamento sessuale all’impiego nelle industrie e nelle piantagioni, passando per i lavori di strada o quelli familiari.
L’Anice propone una distinzione, per distinguere appunto le suddette “attività” distinguendo child labour e child work. La differenza sostanziale sta nel fatto che il child work interpreta il lavoro minorile leggero che comunque non ostacola l’istruzione e, anche se con difficoltà, nemmeno lo sviluppo del bambino; mentre il child labour è quello che noi definiamo in tutta sostanza lo sfruttamento minorile e del lavoro dei minori.
E’ chiaro che tale situazione, tale piaga mondiale, si manifesta per lo più nei paesi più poveri, perché è nella povertà che va cercata la maggiora causa, la necessità cioè, di sfamare una famiglia con molti disagi. Senza dimenticare ovviamente che la situazione peggiore è in quei Paese sottosviluppati dove ad avere disagi non è la famiglia in questione ma lo stato che del lavoro minorile ne fa di conseguenza una sponda su cui produrre beni, o meglio sostenere il debito.
Infatti, le statiche ci dicono che in Asia ed Africa, oltre che in America Latina e Medio Oriente assistiamo all’esasperazione di questo male.
In Africa il fenomeno appartiene al giro del raket, al mercato degli schiavi, ancora molto fiorente, mentre in Asia il lavoro minorile rappresenta un vero e proprio modello produttivo in quanto “i bambini costano meno e resisto alle malattie”. I piani più sviluppati non sfuggono al problema, anche l’Europa, soprattutto quella dell’Est, e anche in Italia molti minori adempiono lavori che nella stragrande maggioranza dei casi comunque non impediscono loro di istruirsi e svilupparsi senza problemi.
Chiaro che la soluzione è di diffide attuazione. Riconosciuto da tutti che l’istruzione è l’unico mezzo per abbattere questa piaga, allo stesso modo come è presente a tutti il fatto che passeranno anni prima che il mondo possa accantonare questa piaga nelle pagine di storia del passato, considerando pure che ogni Paese reagisce in maniera diversa e con vedute che non vanno oltre i propri confini, e dove “molti bambini fanno finta di essere tali”.

martedì 20 settembre 2011

Trovate uno scopo, associatevi intorno ad esso e ponete le basi affinchè deleghiamo noi stessi a disegnare il presente ed il futuro delle nostre vite.

L’associazionismo nella tradizione liberal-democratica

Nella Democrazia in America Tocqueville, andato alla ricerca delle origini e delle motivazioni profonde di una società democratica che in Europa stava faticosamente e minacciosamente emergendo, ci ha lasciato un immagine dello spirito societario della società americana che il tempo non è ancora riuscito a rendere sfocata, e, ancorché contestata oppure rimpianta, è diventata la fonte d’ispirazione di ogni forma di pluralismo democratico: “L’America - egli scrive – è il solo paese al mondo in cui si è tratto il maggior partito dell’associazione, e dove si è applicato questo potente mezzo di azione a una maggior varietà di situazioni”. E subito dopo precisa: “Indipendentemente dalle associazioni permanenti, create dalla legge sotto il nome di comuni, città e contee, c’è ne una moltitudine di altre, che devono il loro sorgere ed il loro sviluppo solo a volontà individuali”. Altrove: “ Le associazioni politiche che esistono negli Stati Uniti non costituiscono che un particolare nell’immenso panorama delle associazioni. Gli americani di tutte le età, condizioni e tendenze, si associano di continuo. Non soltanto possiedono associazioni commerciali ed industriali, di cui tutti ne fanno parte, ne hanno anche di mille altre specie: religiose, morali, gravi, futili, generali e specifiche, vastissime e ristrette. Gli americani si associano per dare feste, fondare seminari, costruire alberghi, innalzare chiese, diffondere libri, inviare missionari agli antipodi; creano in questo modo ospedali, prigioni, scuole. Dappertutto,ove alla testa di una nuova iniziativa vedete, in Francia, il governo, e in Inghilterra un gran signore, state sicuri di vedere negli Stati Uniti un’associazione”. Vera o falsa che fosse questa descrizione (Tocqueville aveva il talento della forzatura che fa emergere con maggiore evidenza i contrasti), essa non è tanto importante per se stessa quanto perché servì a Tocqueville per cogliere il nesso profondo tra associazionismo e democrazia. E gli bastarono poche righe per rappresentarcelo in una forma definitiva: “L’abitante degli Stati Uniti impara fin dalla nascita che bisogna contare su se stessi, per lottare contro i mali e gli ostacoli della vita; egli non getta sull’autorità sociale che uno sguardo diffidente e inquieto, e ricorre al suo potere solo quando non può farne a meno”. Qualche esempio: “ Un ostacolo si forma sulla pubblica via, il passaggio è interrotto, la circolazione bloccata: i vicini si costituiscono subito in corpo deliberante; da questa assemblea improvvisata uscirà subito un potere esecutivo che rimedierà al male, prima che l’idea di una autorità preesistente a quella degli interessati si presenti all’immaginazione di alcuno”. Ancora meglio risalta il rapporto fra democrazia e spirito associativo nel confronto fra regime democratico ed aristocratico: “Nelle società aristocratiche, gli uomini non hanno bisogno di unirsi per agire, perché sono gia saldamente tenuti insieme. Ogni cittadino ricco e potente è come alla testa di una associazione permanete e forzosa, che si compone di tutti coloro che dipendono da lui e che egli fa concorrere all’esecuzione dei suoi disegni. Nelle democrazie, invece, tutti i cittadini sono indipendenti e inefficienti, non possono quasi nulla da soli e nessuno obbligare i propri simili a dargli la propria cooperazione. Se non imparano ad aiutarsi liberamente, cadono quindi tutti nell’impotenza”. Non ho bisogno di dire quanto questo libro straordinario abbia contribuito a fare del pluralismo l’ideologia americana per eccellenza: ideologia che permane sostanzialmente immutata nonostante le critiche talora spietate ad essa rivolte fra osservatori interni ed esterni. Basti considerare che il contrario del pluralismo è il totalitarismo, anch’esso una categoria che, nonostante qualche flessione, è tutt’ora largamente adoperata non solo nella pubblicista ma anche nella teoria e nella scienza politica. Con espressione più dotta, e ideologicamente meno compromessa, alcuni scienziati politici contemporanei, fra più noti e meno discussi, parlano di “autonomia dei sottosistemi”. La maggiore o minore autonomia dei sottosistemi serve a differenziare i regimi democratici da quelli autoritari e totalitari.

sabato 17 settembre 2011

Non si può chiedere ad un politico di agire nella piena moralità delle cose se poi lo si giudica in base al suo successo.

Politica e morale

E’ uno dei problemi fondamentali della filosofia politica, il problema del rapporto fra politica e morale. La politica e la morale hanno in comune il dominio su cui si estendono, che è il dominio  dell’azione o della prassi umana. Si ritiene si distinguono tra loro in base al diverso principio o criterio di giustificazione e di valutazione delle rispettive azioni, con la conseguenza che ciò che è obbligatorio in morale non è detto che sia obbligatorio in politica, e ciò che è lecito in politica non è detto che sia lecito in morale; o che vi possono essere azioni morali che sono impolitiche (o apolitiche) e azioni politiche che sono immorali (o amorali). La scoperta della distinzione che viene attribuita, a torto o a ragione, a Machiavelli, onde il nome machiavellismo a ogni teoria della politica che sostiene e difende la separazione della politica dalla morale, viene di solito trattata come problema dell’autonomia della politica. Il problema procede di pari passo con la formazione dello stato moderno e con la sua graduale emancipazione della chiesa, che giunge nei casi estremi alla subordinazione della chiesa allo stato e di conseguenza alla supremazia assoluta della politica. In realtà ciò che si chiama autonomia della politica non è altro che il riconoscimento che il criterio in base al quale si considera buona o cattiva azione politica (e per azione politica s’intende un azione che abbia o per oggetto o per soggetto la polis) è diverso dal criterio in base al quale si considera buona o cattiva una azione morale. Mentre il criterio in base al quale si giudica un’azione come moralmente buona i cattiva è rispetto di una norma il cui comando è considerato come categorico, indipendentemente dal risultato dell’azione (“fa quel che devi e avvenga quel che può”), il criterio in base al quale si giudica un’azione come politicamente buona o cattiva è puramente e semplicemente il risultato (“fai quel che devi perché avvenga quel che vuoi”). I due criteri sono incommensurabili. Questa incommensurabilità viene espressa mediante l’affermazione che in politica vale la massima “il fine giustifica i mezzi”, massima che ha trovato in Machiavelli una delle sue più forti espressioni: “e nelle azioni di tutti li uomini, e massime dè principi, dove non è indizio da reclamare, si guarda al fine. Facci dunque uno principe di vincere e mantenere lo stato, e mezzi saranno sempre iudicati onorevoli, e da ciascuno laudati” (Principe, XVIII). Al contrario, in morale la massima machiavellica non vale, giacché un’azione per essere giudicata moralmente buona deve essere compiuta con nessun altro fine che quello di compiere il proprio dovere.
Una delle più convincenti interpretazioni di questa contrapposizione è la distinzione weberiana fra l’etica della convinzione e l’etica della responsabilità: “ve una differenza incolmabile fra l’agire dell’etica della convinzione, la quale in termini religiosi suona – il cristiano opera da giusto e rimette l’esito nelle mani di Dio-, e l’agire secondo la massima dell’etica della responsabilità, secondo la quale bisogna rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni”. L’universo della morale e quello della politica si muovo dentro l’ambito di due sistemi etici diversi anzi contrapposti. Più che di immoralità della politica o apoliticità della morale si dovrebbe più correttamente parlare di due universi etici che si muovono secondo principi diversi secondo le diverse situazioni in cui gli uomini si trovano ad agire. Di questi due universi etici sono rappresentanti due personaggi diversi che agiscono nel mondo su vie destinate quasi sempre a non incontrarsi: da un lato l’uomo di fede, il profeta, il pedagogo, il saggio che guarda alla città celeste, dall’altro l’uomo di stato, il condottiero di uomini, il creatore della città terrena. Ciò che conta per il primo è la purezza delle intenzioni e la coerenza dell’azione all’intenzione, per il secondo la certezza e la fecondità del risultato.  La cosiddetta immoralità della politica si risolve a ben guardare in una morale diversa da quella del dovere per il dovere: è la morale per cui si deve fare tutto quello che è in nostro potere per realizzare lo scopo che ci siamo preposti, perché sappiamo sin dall’inizio che saremo giudicati in base al successo. Vi corrispondo due concetti di virtù, quella classica, per cui “virtù” significa disposizione del bene morale (contrapposto all’utile), e quella machiavellica per cui la virtù è la capacità del principe forte e avveduto che, usando insieme della “golpe” e del “lione”, riesce nell’intento di mantenere e di rafforzare il proprio dominio.
(Teoria Generale della Politica, Norberto Bobbio, a cura di Michelangelo Bovero, III Politica e morale 116).

Non si può chiedere ad un politico di agire nella piena moralità delle cose se poi lo si giudica in base al suo successo. (Antonio Pace)

venerdì 2 settembre 2011

Commento sulla Lettera aperta di Luigi A. Dell'Aquila

Da le pagine de “Il Cirotano”, per la quale nutro grande stima e rispetto per il nobile lavoro di informazione e lo spazio che garantisce a tutte le parti sociali del territorio, cirotano appunto, leggiamo della nota del Dirigente Nazionale dell’Associazione Internazionale Calabresi nel Mondo, Luigi A. Dell’Aquila, e condividendo a pieno gli aspetti principali del documento, assieme ai miei amici dell’Associazione TrecentoSessanta, vogliamo aprire un dibattito, su queste pagine ed oltre, sull’argomento preso in causa, invitando magari il caro Luigi, a prendere in considerazione la possibilità di sviluppare il tema in un incontro pubblico nel cirotano con “tutti i calabresi nel mondo”.
Punto cardine riteniamo che sia “la partecipazione”. Noi che di Trecentosessanta mettiamo “la cittadinanza attiva” al primo posto delle qualità per il progresso di un territorio, come Voi, crediamo fondamentale una partecipazione attiva e in prima persona del popolo, della comunità, insomma della gente tutta, alla gestione della cosa pubblica. Le amministrazioni locali “devono”, ma al giorno d’oggi “hanno bisogno”, per una buona amministrazione, di coinvolgere i cittadini nelle decisioni più importanti, allargando quindi la partecipazione della gente, oggi chiamata quasi esclusivamente nelle occasioni delle elezioni. E tutto questo per quel concetto che dice che: “la città è dei cittadini”, o come la frase la frase con cui Ligabue ha chiuso il concerto allo Stadio Olimpico di Roma del 2008: “questo paese non è di chi lo governa ma di chi lo abita” (frase che Trecentosessanta ha bene impresso nell’insegna davanti la propria sede).
Non a caso il Consiglio d'Europa ha lanciato un programma chiamato EDC-Education for Democratic Citizenship il cui scopo è individuare quali valori e competenze occorrono per divenire cittadini partecipi, come si possono acquisire queste competenze e come possono essere insegnate ad altre persone. E poi anche in numerosi paesi della UE, si sta affermando sempre più spesso il ricorso a processi decisionali inclusivi (dalle conferenze di servizi agli accordi di programma, dai patti territoriali ai programmi di riqualificazione urbana, dai piani di zona per i servizi sociali ai piani di tempi degli orari, dai progetti di agenda A21 locale ai piani strategici delle città, ai contratti di quartiere, passando per il bilancio partecipativo), e in tal senso ritengo necessario far si che i cittadini si riconoscono fondamentali nella “catena della democrazia”.
“E’ la Cultura che potrebbe (noi diciamo “deve”) diventare il principale traino per la promozione e la valorizzazione di tutti i settori della comunità del territorio de del cirotano”, una frase, quella di Luigi Dell’Aquila, che “faccio mia”, e che Trecentosessanta “fa sua”, condividendone a pieno i valori e considerando proprio il “cambiamento culturale” come lo strumento primo per il progresso del comprensorio cirotano.
Non mi resta che esprimere, a nome mio e di Trecentosessanta, il lavoro, gli sforzi e la fatica che l’Associazione Internazionale Calabresi nel Mondo, “devolve alla Calabria”, esprimendo vicinanza e disponibilità affinché molte cause e dibattiti diventino comuni e associati alle nostre attività. 

Si lavori da generazione

Giovani troppo accondiscendenti nell'essere trattati più come figli che come cittadini, nel chiedere come favore dai genitori quanto invece si dovrebbe dallo Stato come diritto, facendo prevalere il disincanto, l'inerzia, l'arte tutta "nostrana" di andare avanti vivacchiando!
Se è innegabile che io giovani ereditano una situazione di svantaggio determinata dalle infauste scelte operate dalle generazioni più grandi, ciò non può costituire un alibi. La storia insegna che nonostante gli ostacoli, ogni generazione ha comunque il compito, anzi il dovere di trovare la propria strada. Ogni generazioni ha come destino quello di trovare la propria via quindi, guadagnando il proprio spazio vitale e, se gli viene precluso, di forzare il cambiamento.
Dunque se i giovani pensano di aver diritto ad un futuro migliore rispetto a quello che gli è stato preconfezionato, l'unica possibilità, in una società rigida, è quella semplicemente di prenderselo.
Avere l'arrogante audacia di lottare senza timori reversibili, il creativo coraggio di riattivare un conflitto generazionale di cambiamento, la lucida determinazione di rompere una volta per tutte la lunga tregua generazionale che blocca in un abbraccio soffocante le energie più vigorose del nostro paese.
Muoversi da generazione. Per essere in senso pieno una "generazione" non basta essere un insieme di persone nate nello stesso periodo, occorre anche una pulsione affine, un reagire unitario. Una reazione che nasce per contrasto ai limiti e alle contraddizioni del mondo dei padri ed è portavoce di una nuova visione. Frutto di un rapporto dialettico tra generazioni, tra chi in quel momento storico è giovane e si sta affacciando alla vita pubblica e chi è adulto e rappresenta lo status quo. Un'identità generazionale che si sviluppa in età giovanile che risulta tanto più forte quanto più accentuata e consapevole è la contrapposizione tra la rigidità della tradizione e la spontaneità dell'innovazione.
"Io sono la prova che in questo paese tutto può accadere, sono state le parole di Barack Obama nel suo primo discorso dopo l'esito delle elezioni americane. Non è a caso che due giovani su tre l'abbiano votato. Da noi il cambiamento è destinato ad avere vita più dura, data la minor consistenza demografica delle forze che per propria natura sono più aperte al nuovo. La forza numerica più ridotta richiederebbe allora di essere compensata da un maggior coraggio: meno difese della posizioni raggiunte da parte delle vecchie generazioni, meno coaptazione, più disponibilità a mettersi in discussione. E soprattutto più coraggio da parte dei giovani nel guadagnare il proprio spazio.
Rivolgendomi agli attuali ventenni, dico che chi ha adesso in mano le leve del potere non è affatto interessato al cambiamento e a far crescere il paese, e lo dimostrano i risulta degli ultimi anni. A fronte di tale sta però il successo personale nella difesa del proprio benessere, mentre le condizioni dei giovani italiani si sono progressivamente deteriorate. La combinazione di questi fatti dovrebbe essere sufficiente per chiedere un'intera fase è classe politica venga superata. Non è più accettabile che a guidare l'agire politico siano logiche miopi fondate su regole del passato. E' necessario aprirsi al futuro, che significa anche, finalmente, impegnarsi per raggiungere e coinvolgere i più giovani.
Basta con la retorica, basta col campanilismo esagerato del "giovinismo", dove tutti ci si buttano a capofitto. Basta giovani usati come maschera per nascondere quanto di più logorato dal tempo c'è. Basta con i giovani permissivi e disinteressati. E' ora di agire. E' ora che la generazione passata consenta a quella presente di costruirsi il proprio futuro, decidere di se stessi, ed è ora che i giovani ventenni, trentenni ma anche quarantenni, si rimbocchino le maniche e prendano la situazione in mano, a qualsiasi costo, a qualsiasi rischio, con responsabilità, e con la coscienza che si è lavorati da soli alle proprie scelte.